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Della mia prima
e già lontana
giovinezza,
ancorata (con
qualche
lunghezza di
catena) al
secolo XIX,
ricordo
soprattutto il
bel mare di
Porto Venere
pieno di pesci e
di molluschi che
il grande
Lazzaro
Spallanzani (che
scoprì i microbi
un secolo prima
di Pasteur)
aveva
accuratamente
catalogati. E’
noto infatti che
il biologo e
naturalista di
Scandiano
(Modena) dimorò
per qualche
tempo a Porto
Venere nel 1782
e, si dice,
anche nel 1781,
ospitato nel
convento di San
Francesco (ora
sede del
comune). A quel
catalogo, ha
scritto uno
zoologo, mancano
oggi molte
specie (pare un
centinaio)
uccise dalla
nafta, dai
detersivi e
dallo sterminio
fattone dai
pescatori poco
scrupolosi.
A noi ragazzi faceva piacere raccogliere le
belle conchiglie
variopinte che
la mareggiata
straccava sulle
spiagge (allora
vi erano le
spiagge!) e
conservare le
più belle,
insieme a
quelle, dalle
forme e dai
colori
fantastici, che
i marinai
portavano dai
mari lontani.
Ma sui monti e sulle rocce foranee delle
isole vi erano
altre
conchiglie, note
solo ai pochi
che si erano
assunti l’arduo
compito di
leggere sulle
rocce
stratificate la
storia della
Terra: le
conchiglie
fossili! Queste,
come è noto,
furono milioni
di anni fa
conchiglie
viventi ma
rimaste
incapsulate in
strati
sedimentari, e
fuori del
contatto
corrompente
dell’aria,
andarono
soggette al
lento processo
della
mineralizzazione
sostituendosi
cristallini
minerali al
posto delle
cellule
dell’organismo
vivente.
I monti della Spezia, costituiti per buona
parte da rocce
calcaree molto
accidentate
(strati contorti
o rovesciati nei
modi più strani
in seguito a
sconvolgimenti e
sollevamenti dai
fondi marini
nelle epoche
geologiche) ne
sono
particolarmente
ricchi. Il primo
a scoprirveli e
raccogliere
questi fossili
in centinaia di
esemplari,
facendone la
classificazione
scientifica, fu
Girolamo Guidoni
di Vernazza, già
stimato
naturalista
quando (intorno
al 1850-54)
cominciava ad
affermarsi nello
stesso campo la
fama di Giovanni
Cappellini. Lo
deduco da un
ingiallito «
cartulario » di
un mio avo
paterno, il
dottor Tommaso
Bernardo
Montefinale,
nato a Porto
Venere nel 1795,
medico del
paese, ma noto
nel golfo dove
(nella prima
metà del secolo
XIX) i medici
erano assai
pochi, e
frequenti le
epidemie,
battendo spesso
alle porte il
terribile «
colera indico ».
La suddetta
preziosa
raccolta di
scritti medici,
letterari e di
storia naturale
è una delle
ultime
testimonianze
dell’erudizione
tipica dei
medici di
allora, la cui
formazione si
allacciava alla
tradizione dei
«filosofi
naturali » (o
fisici) del
Rinascimento.
Del resto
Galileo Galilei
aveva cominciato
la sua fatidica
carriera
scientifica con
l’addottorarsi a
Pisa in
medicina, e «
fisico » veniva
chiamato il
medico in vari
paesi d’Italia
fino agli inizi
del secolo
passato, mentre
l’uso di
chiamare
physician
il medico si
protrae tuttora
presso il popolo
inglese.
Tornando al Guidoni, suppongo che egli
fosse amico, se
non proprio
coetaneo, di mio
nonno, e
certamente con
lui in
corrispondenza
scientifica, in
quanto gran
parte delle
notizie
contenute nella
citata raccolta
sulla
costituzione
geologica e
sulla
paleontologia
del nostro golfo
sono attribuite
nei suoi scritti
al naturalista
di Vernazza.
Vi trovo, ad esempio, ragguagli poco noti
sui marmi del
territorio
compreso
nell’attuale
provincia,
soprattutto sul
portòro (o «
marmo di
Portovenere »)
già conosciuto,
a quanto pare,
dagli antichi
romani; sulle
varie specie di
esso, sulla
probabile
origine delle
epoche
geologiche,
delle
caratteristiche
macchie
giallo-oro su
fondo nero cupo.
A proposito
delle cave, vi
si legge che nel
1827 le più
importanti erano
quelle del Muzzerone (anzi
sono dette «
delle Grazie »)
ed altra alla «
estremità
orientale »
della Palmaria e
che si supponeva
l’esistenza, del
portòro anche
nell’isolotto
del Tino. Ciò
contrasterebbe
con quanto io
stesso ebbi a
scrivere lo
scorso anno in
questo giornale,
che il portòro
cioè si cominciò
a scavare alla
Palmaria, e
successivamente
al Tino, intorno
ai 1900.
Per vero, il mio avo tratta di una cava
sita
nell’«estremità
orientale »
della Palmaria,
mentre è
risaputo che dal
1900 in poi le
escavazioni si
svolsero a
preferenza fra
la punta
dell’isola (di
fronte aI Tino)
e la Cala
Grande, e ciò
lascia un po’
disorientati
sull’esatta
ubicazione delle
cave alla
Palmaria
nell’anno 1827.
Queste insieme a
quelle dette «
delle Grazie »
in detto anno
avrebbero dato
una produzione
di 8000 palmi
cubici di marmo,
per un valore
complessivo di
48.000 lire
dell’epoca. Tale
industria fu
incrementata
negli anni
successivi e si
legge nelle «
Memorie » di
Agostino Falconi
che nel 1840 si
contavano 30
cave distribuite
fra il Monte
Santa Croce e la
Palmaria; per
poi diminuire
nuovamente
quando i grandi
lavori
dell’arsenale e
la costruzione
della diga
foranea
assorbirono
tutta l’attività
escavatoria del
golfo.
Giovanni Capellini ha riconosciuto nei suoi
« Ricordi »
l’opera di
precursore del
Guidoni nelle
ricerche
geologiche e
paleontologiche
della regione e
Vernazza che gli
ha dato i natali
gli ha dedicato
una lapide
significativa
ben in vista a
chi sbarca nel
suo pittorico
approdo.
Gerolamo Guidoni
e Giovanni
Capellini: i due
primi
escursionisti
(direi gli
arrampicatori
scientifici)
delle montagne e
delle isole dei
golfo, quando
ciò era
possibile lungo
i numerosi
sentieri
snodantisi
attraverso la
ancor intatta e
vergine chioma
di verde. Oggi,
i sentieri sono
ridotti a
petraie popolate
di rettili: la
Palmaria,
polmone di Porto
Venere e del
golfo, ad isola
polinesiana,
sempre in attesa
dei Cook che la
riscoprano e le
restituiscano un
minimo di
valorizzazione,
o per lo meno di
accessibilità...
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